Senza l’ardire di ripercorrere per intero la storia del tatuaggio, questa settimana solletichiamo la vostra curiosità partendo da una vicenda immaginaria: una saga i cui membri tramandano un diario che si apre con incisioni grafiche fino a giungere al tempo della narratrice. «Mi chiamo Yuina, il significato giapponese è “legame”, lo stesso di Yua “legame di amore e affetto”. Che siamo sorelle in pochi lo crederebbero, se si basassero solo sulla Scala Fizpatrick. Tipo I, molto chiara io e tipo IV, olivastra, Yua. Siamo rami dello stesso albero genealogico la cui discendenza ha radici lontane, XV secolo, ma che nonna Taka (“alta”), da sempre, ci racconta partendo dal XVIII. In un villaggio adagiato sulle sponde del Lemro viveva la giovane Myint San. In quei luoghi già a 15 anni il rischio era di venir scelta dai signorotti come dono in sposa ai re dei villaggi limitrofi o, peggio, concubina. Per questo le donne birmane solevano tatuare sul viso delle figlie orribili disegni per scongiurarne il tragico destino. Destino che non risparmiò la giovane Myint San, che venne data in sposa ad un nobile di un regno adiacente. Dal connubio nacquero due bimbi. Il maschio morì appena vide la luce, la femmina sopravvisse scatenando l’ira del signorotto che ambiva ad un erede. Con la complicità di altre concubine, Myint San e la piccola Aung San riuscirono a fuggire nella provincia di Orissa, in India. Lì Myint San si adoperò in lavori umili, godendo dei favori delle case dove riusciva ad impiegarsi. Cresciuta in questi luoghi, la piccola Aung San assistette a molti riti d’iniziazione. Alcuni consistevano nel preparare le donne al matrimonio, segnandole con un pigmento nerofumo raschiato dalle pentole ed inciso nella pelle con aghi e chiodi. Alla morte della mamma, Aung San divenne intima di un colono britannico che la portò con sé in un’area del Sahara. Ebbero un figlio, ma l’inglese visse il tanto che bastò a sentirlo parlare. Il bambino crebbe con la madre e gli indigeni locali che gli scelsero il nome di Nadir, “insolito”, per il colore della pelle che volgeva più al chiaro che allo scuro degli indigeni. Rubando con gli occhi il bambino imparò la tecnica del tatuaggio all’henné. Una tecnica che gli tornò utile quando orfano si trovò a dimorare nella casa del nonno paterno nel Regno Unito. Qui Nadir poté permettersi di approfondire gli studi sulle le tecniche del tatuaggio attraverso i secoli e nelle varie parti del mondo: dall’uso come terapia per il rigonfiamento della pelle dei Berberi, o cura per l’artrosi come gli esami rinvenuti su Ötzi, la mummia del Similaun, all’uso sacro come il “Moko” per i Maori, cui scopo era di proteggere gli spiriti del tatuato e tatuatore dal male, o le “haniwa”, statuette rinvenute nelle antiche tombe giapponesi. Furono quest’ultime a condurlo in Giappone dove incontrò nonna Taka. Lei teneva una conferenza sulla storia del tatuaggio e di come, a partire dal XVII secolo, veniva indicati con nomi diversi sia che fosse decorativo – “horimono” a Edo (Tokyo) e “gaman” nella regione di Kyoto e Osaka o punitivo “irezumi”. Fu un colpo di fulmine. Insieme viaggiarono trovandosi a praticare in molte parti del mondo, diventando pionieri di quello che divenne poi il tatuaggio anche per scopi cosmetici e ricostruttivi. Una passione tramandata sino ad oggi e che approda davanti al nostro studio. Un centro di tatuaggio artistico e cosmetico-ricostruttivo dove mamma Nozomi (“speranza”) prima ed io e Yua ora, gestiamo con lo stesso trasporto dei nostri avi, potendo contare sull’eredità ricevuta dalle generazioni sugli antichi usi, arrivando a perfezionarli con strumenti che ora permettono di operare sui vari tipi di pelle e pigmentazioni in maniera indolore ed in tutta sicurezza. Un’avventura di pelle e colori.