Chi non vorrebbe lo specchio di Grimilde? La strega interroga lo specchio non per compiacersi, ma per paura di essere superata in bellezza da una donna più giovane e più bella. Messa così è innegabile che “rimirarsi” rimandi a comportamenti fatui, dando alla vanità un’accezione negativa. Potevamo liquidare la questione così, noi “operaie” della bellezza? No. Oggi vogliamo rivoluzionare il termine “vanità” riscattandolo dalla connotazione che spesso gli viene riservata. I fratelli Grimm dicevano che i loro racconti erano “frammenti di uno specchio rotto sparsi nell’erba’” e che ridisporre quel mosaico permettesse a uomini e donne di ricomporre la quintessenza della propria realtà. Si potrebbe quindi dire che guardarsi allo specchio sia “essenziale”. E’ in quel momento, del resto, che alcuni nostri buoni propositi prendono forma. E se non nascono per compiacere il giudizio altrui, sono preliminari di una trasformazione. Vivere la vanità in modo consapevole favorisce la cura di sé, motivandone le azioni a seguire. In questa era social ci capita di solleticare la vanità correggendo le nostre foto. E se questi “ritocchi” fossero carburante per il cambiamento? E’ innegabile che anche un’evoluzione estetica agevoli le relazioni. Non è nostro intento essere superficiali, sostenendo che la bellezza “apre porte”. Ma l’aspetto esteriore è il nostro primo biglietto da visita. Una buona cornice su un quadro già bello alza l’asticella della nostra autostima. “L’amor proprio, signore, non è un peccato tanto vile quanto lo è trascurarsi” (W. Shakespeare). E tu? Aspetti che lo specchio rifletta la più bella del reame? O trasformi le imperfezioni in peculiarità?